LA MONTAGNA INVISIBILE

Le volute di fumo si libravano nell’aria, il Gran Kan di tutti i Tartari e il suo ospite forestiero, di un Piemonte che non esisteva ancora, fumavano godendosi la brezza leggera della notte appena cominciata.

Stavano silenziosi quasi in contemplazione, pensierosi.

«Ho sognato una donna in catene, un dragone, un cavaliere con la lancia che lo infilzava» esclamò l’Imperatore, stanco del silenzio.

L’ospite sorrise e non proferì parola.

Il silenzio scese di nuovo tra di loro.

Il Kan riprese a parlare, cercando un nuovo argomento di conversazione: «Mi hai descritto le montagne che circondano la tua terra, di quella piramidale del Monviso, della Gran Guglia, del Cornour, del Gran Queyron, di quella appuntita del Cervino, del massiccio del Breithorn… ma nel tuo piccolo paese non ci sono montagne?»

L’ospite disse che una montagna c’era e tutte le volte che apriva la finestra di casa, essa appariva lì incorniciata e incombente.

Per la verità non era l’altezza a caratterizzarla ma la sua repentina discesa verso il paese ai suoi piedi, la pianura.

Sostenne che se anche gli avesse detto di quanti metri si elevava sul mare o il nome delle sue rocce, non gli avrebbe comunque detto nulla di Lei

Gli disse inoltre che ciclicamente prendeva fuoco, con un rito ancestrale che richiamava epoche lontane.

Per questo motivo gli abitanti sono soprannominati Rasatà, che nella lingua locale significa: bruciati.

«Anche le leggende si sono occupate di questo rilievo» incalzò il forestiero, oramai inarrestabile nelle sue descrizioni.

«Una racconta che in origine quel fuoco era in grado di scacciare un grande leviatano. Soltanto la nebbia pareva autorizzata a cancellare il riverbero delle fiamme dal paesaggio circostante.

Quando giungeva da nord riusciva ad avvolgere la cima come una coperta.

Se invece la nebbia rimaneva in cima, secondo un proverbio avrebbe portato “o brutto o bel tempo”.

Per molto tempo nessuna strada ha condotto alla sua cima. Solo sentieri la cingevano dai fianchi per portare in cima monaci, pastori, carbonai…

Ma a Lei non importa.

Se ne sta lì di fronte a noi con un’aria di sfida, ed è proprio per questo che io un giorno decisi di sfidarla.

Me lo ricordo ancora.

Forse avevo sedici, diciassette anni. Le urlai: “Ti conquisterò dove non ci sono sentieri!”»

A quel punto l’ospite tacque, in cerca di sostegno dal Kan.

Dopo un cenno d’intesa, continuò raccontando di essersi avviato, come preso da un raptus.

Zigzagando tra rocce e spuntoni arrivò fino al punto in cui una roccia, che dal basso sembrava molto più piccola, pensò di non poter completare la sua pazzia.

«Questa montagna» disse il forestiero «è il mio paragone.

Ogni volta che racconto di una cima che ho visto o scalato io la accosto a questa.

Delle altre posso dire come sono fatte, dove sono, se è difficile salire e se qualcuno le ha conquistate, ma soltanto di Lei posso anche raccontarne l’intimità.

Conquistare una montagna non è solo salire in vetta, ma scendere nella profondità della sua storia.

La memoria è custodita nelle sue mute rocce, negli alberi, nelle pietre, segni naturali del tempo.

L’occhio del visitatore che la frequenta raramente comprende il tutto: se vede un pino pensa che questo genere di piante sia sempre stato lì.

Invece in Lei è un ospite moderno, un antidoto al fuoco.

Quando questo preso dall’ira e sparso dal vento si accanisce contro la corteccia, lo spoglia senza però poterlo atterrare. Sono gli uomini ad averlo portato sulle sue pendici perché il rovere soccombe e non risorge così in fretta.»

Un altro silenzio, l’ennesimo. Il forestiero rivedeva scorrere la vita in altura, quella vita di quando l’idea del viaggio ancora non era contemplata: la montagna saprà ancora riconoscerlo, una volta ritornato a casa?

«Ora quella montagna è frequentata perfino di notte, per diletto. Un tempo era rifugio di donne considerate in combutta con il diavolo, era luogo di pastori, di eresiarchi itineranti, di monaci oranti; il lupo si affacciava su qualche spuntone a far sentire il suo notturno lamento…»

Il Gran Kan interruppe il racconto, forse preso dal sonno o semplicemente per porgli una domanda ovvia: «Ho compreso che la grandezza di una montagna non risiede solo nell’altezza e che questa tua descrizione presuppone una relazione d’amore esclusiva degli abitanti che le stanno ai suoi piedi.

Ma come si chiama questa vostra montagna?»

Al forestiero ritornò il sorriso di quando il Kan accennò al suo sogno: «Serenissimo, il nome di questa montagna vi è già stato suggerito da quanto avete sognato.

Forse è il vostro sogno ad avervi condotto sulla sua cima.

Il monte si chiama San Giorgio,

in onore del cavaliere che riuscì a infilzare un drago con la sua grossa lancia.

La leggenda vuole che in terra di Nubia egli abbia salvato la figlia di un Re.

Nelle nostre terre è il simbolo della cavalleria.

Là sulla cima dove il monte sembra dar l’assalto al cielo, i monaci molti secoli addietro vi costruirono una chiesa.

Da questa sua meravigliosa specula vegliarono sulla pianura e dialogarono con il nostro Dio.»

A quelle parole il Gran Kan sorrise, e a quel punto…

Lo ammetto: così sognai di parlare con il Gran Kan, ma il mio desiderio fu soltanto un sogno interrotto dal suono impertinente della sveglia.

Sognai di spiegare il suo sogno, di tenerne il filo delle sensazioni e di lasciarlo sollevare in aria come un aquilone.

Quella volteggiante nell’aria è solo la montagna immaginaria, mentre l’altra rimane a fissarmi austera, incorniciata nella mia finestra.

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